DIRITTO
INTRODUZIONE
Coerentemente col tema conduttore della tesina interdisciplinare, mi propongono di esaminare tre aspetti collegati tra loro: il delitto, l’azione di contrasto al crimine e la pena applicata. In altri termini parlerò dell’associazione di tipo mafioso, delle strutture preposte al contrasto di queste attività criminali e del regime di carcerazione speciale riservato a mafiosi e terroristi.
ASSOCIAZIONE DI TIPO MAFIOSO
L’associazione di tipo mafioso è un reato previsto dal codice penale italiano.
Il 3 settembre 1982, l’uccisione del generale Dalla Chiesa e il conseguente sdegno dell’opinione pubblica, spinse lo Stato a formulare e introdurre in brevissimo tempo l’art. 416-bis, con la legge n. 646/1982, cercando così di perseguire in modo più incisivo il fenomeno mafioso. Sino a quel momento i delitti mafiosi ricadevano sotto l’art. 416 del Codice Penale, che tratta più genericamente l’associazione per delinquere.
La legge del 13 settembre 1982 n. 646 è una fattispecie autonoma del reato di associazione per delinquere. Questa legge è detta “Rognoni-La Torre” dal nome dei suoi promotori ed è contenuta all’interno del V titolo della seconda parte del codice penale, ovvero nella parte che disciplina i delitti contro l’ordine pubblico.
Il terzo comma dell’art. 416-bis definisce che un’associazione è di tipo mafioso se usa la forza del vincolo associativo e della condizione di soggezione e di omertà che ne derivano per:
- compiere delitti;
- acquisire il controllo o la gestione di attività economiche come:
- concessioni;
- autorizzazioni;
- appalti o altri servizi pubblici;
- procurare profitto o vantaggio a sé o ad altri;
- limitare il libero esercizio del diritto di voto;
- procurare a sé o ad altri voti durante le consultazioni elettorali.
Gli ultimi due punti furono inseriti nel 1992, con la legge 7 agosto 1992, n. 356, (cosiddetta legge
Falcone – Borsellino) nata a seguito delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio.
I reati contro il 416-bis sono puniti con la reclusione da tre a quindici anni, salvo eventuali aggravanti.
L’art. 416-bis prevede inoltre la confisca dei beni per tutte le associazioni riconducibili a quelle di tipo mafioso, comunque siano denominate (mafia, camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita, ecc.).
Successivamente la legge 7 marzo 1996, n. 109, ha introdotto la possibilità di riutilizzare i beni confiscati ai mafiosi per finalità sociali, assegnandoli a enti locali, associazioni o cooperative.
SISTEMA INVESTIGATIVO ANTIMAFIA
Gli strumenti dei quali si è dotato lo Stato Italiano per il contrasto alle organizzazioni mafiose sono essenzialmente 4: la Commissione Parlamentare Antimafia, la Direzione Nazionale Antimafia (DNA), la Direzione Distrettuale Antimafia (DDA) e la Direzione Investigativa Antimafia (DIA).
LA COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA
L’articolo 82 della Costituzione stabilisce che ciascuna Camera possa disporre inchieste su materie di pubblico interesse. Per questo scopo una delle camere nomina, fra i propri componenti, una Commissione d’inchiesta che procede alle indagini con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria. Da questa facoltà sono nate le Commissioni Parlamentari Antimafia.
La Commissione Parlamentare Antimafia è una commissione d’inchiesta bicamerale del Parlamento italiano, composta da 25 deputati e da 25 senatori, con sede a palazzo San Macuto a Roma. Istituita per la prima volta il 20 dicembre 1962, da allora viene promossa all’inizio di ogni Legislatura. In Sicilia l’Assemblea Regionale Siciliana istituisce un’analoga Commissione regionale Antimafia.
La prima proposta di una commissione parlamentare Antimafia risale al 14 settembre 1948 come commissione d’inchiesta sull’ordine pubblico in Sicilia, subito dopo la strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947) e i successivi omicidi compiuti da Cosa Nostra nei confronti di alcuni sindacalisti agrari, ma non fu accolta. Questa proposta fu ripresentata nel 1958 su iniziativa di Ferruccio Parri, ma ancora una volta fu osteggiata , per essere infine approvata nel dicembre 1962.
La prima commissione, presieduta da Paolo Rossi, si insediò il 14 febbraio 1963, ma non tenne alcuna seduta perché il 18 febbraio dello stesso anno le Camere furono sciolte anticipatamente. Nelle successive legislature, eccetto che nella VII, l’istituzione di una Commissione Parlamentare Antimafia fu sempre riconfermata. Il Presidente dell’attuale commissione Antimafia è Rosy Bindi.
LA DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA (DNA)
La Direzione Nazionale Antimafia e anti terrorismo, nell’ordinamento della Repubblica italiana, è un organo della Procura generale che ha sede presso la Corte di Cassazione. È stata istituita con Decreto legge del 1991, con il compito di coordinare, in ambito nazionale, le indagini relative alla criminalità organizzata. La DNA è organizzata in due servizi: il Servizio Studi e Documentazione e il Servizio di Cooperazione Internazionale.
È diretta dal Procuratore Nazionale Antimafia (PNA), nominato direttamente dal Consiglio Superiore della Magistratura, in accordo col ministro della Giustizia. Tra i PNA che si sono succeduti ricordiamo: Pierluigi Vigna (Procuratore di Firenze), Piero Grasso (attuale Presidente del Senato) e Franco Roberti attuale PNA dall’agosto del 2013. Della DNA fanno inoltre parte 20 magistrati del pubblico ministero, che sono i sostituti procuratori nazionali Antimafia.
Le principali materie di competenza della DNA sono: mafia, camorra, ’ndrangheta, narcotraffico, tratta di esseri umani, riciclaggio, appalti pubblici, misure di prevenzione patrimoniali, ecomafie, contraffazione di marchi, operazioni finanziarie sospette, organizzazioni criminali straniere.
Il PNA è sottoposto alla vigilanza del Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, che riferisce al Consiglio Superiore della Magistratura sull’attività svolta e i risultati conseguiti dalla DNA e dalle Direzioni Distrettuali Antimafia (DDA). La DNA coordina le procure distrettuali, ha poteri di sorveglianza, controllo e avocazione. Non può compiere direttamente le indagini e non può dare direttive alle Procure Distrettuali, ma può avocare le indagini condotte dalla Procura che abbia dimostrato grave inerzia o che non si sia coordinata con le altre. Per le indagini, DNA e DDA si avvalgono della Direzione Investigativa Antimafia (DIA) e possono a loro volta avvalersi anche di ROS e SCICO.
LA DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA (DDA)
La direzione distrettuale Antimafia (DDA) è l’organo delle Procure della Repubblica, che si trova presso i tribunali dei capoluoghi dei 26 distretti di corte d’appello, a cui sono affidati i procedimenti sui reati di stampo mafioso. Sono coordinate a livello nazionale dalla Direzione nazionale Antimafia (DNA), a sua volta dipendente dalla Procura generale, presso la Corte Suprema di Cassazione.
Nel contrasto alla criminalità organizzata, soprattutto di tipo mafioso, è importante garantire l’organizzazione, il coordinamento e il collegamento delle indagini tra le Procure. Il magistrato Giovanni Falcone sollevò il problema della comunicazione tra le Procure e contribuì ad organizzare l’attuale sistema investigativo Antimafia.
All’inizio degli anni novanta del XX secolo, per garantire il coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata, con decreto legge 20 novembre 1991 n. 367, si istituì la figura del Procuratore nazionale Antimafia e la Direzione Distrettuale Antimafia.
Il Procuratore della Repubblica (Procuratore Distrettuale) organizza, nell’ambito del suo ufficio, una direzione distrettuale Antimafia (DDA), dove sono attribuite funzioni di PM in primo grado per i delitti, attinenti l’associazione di tipo mafioso, il sequestro di persona a scopo di estorsione commessi avvalendosi dell’associazione mafiosa, di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti o finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, associazione per delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù, alla tratta delle persone, all’acquisto o all’alienazione di schiavi e infine per i delitti con finalità di terrorismo.
La direzione distrettuale Antimafia è coordinata dal Procuratore Distrettuale o da un magistrato da lui delegato, designato in quel caso come Procuratore Aggiunto. Salvo che nell’ipotesi di prima costituzione, il Procuratore Distrettuale, sentito il Procuratore Nazionale Antimafia, nomina i magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia, per un incarico di durata variabile da due a otto anni.
Le Direzioni Distrettuali Antimafia sono coordinate a livello nazionale dalla Direzione Nazionale Antimafia (DNA). Per la natura del reato di stampo mafioso il coordinamento tra le DDA è fortemente richiesto e agevolato, quando non dovesse aver luogo, come abbiamo già detto, la DNA può avocare a se le indagini.
LA DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA (DIA)
La Direzione Investigativa Antimafia (DIA) è un organo investigativo di Pubblica Sicurezza a composizione interforze (Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia Penitenziaria), con compiti investigativi specializzati nella lotta contro le associazioni mafiose. La DIA è stata istituita nel 1991, a seguito dell’intensificarsi della lotta alla mafia, che portò poi all’omicidio di Giovanni Falcone nella strage di Capaci. Falcone fu il principale ispiratore e promotore della DIA, che fu creata con decreto d’urgenza durante il VII governo Andreotti, quando ministro della giustizia era Claudio Martelli.
La DIA fu creata poco prima della DNA, col suo capo il Procuratore Nazionale Antimafia e le DDA distribuite su tutto il territorio nazionale. Il primo capo della DIA fu il generale dei Carabinieri Giuseppe Tavormina.
Al vertice della Direzione Investigativa Antimafia c’è un Direttore, scelto a rotazione tra gli ufficiali del corpo della Guardia di Finanza, dell’Arma dei Carabinieri e dirigenti della Polizia di Stato, che abbiano maturato grande competenza nella lotta al crimine organizzato. Il Direttore è aiutato da due vice direttori, uno con funzioni operative, l’altro con funzioni amministrative.
L’organizzazione è formata da una sede centrale a Roma divisa in 3 reparti (”Investigazioni preventive”, ”Investigazioni giudiziarie” e “Relazioni internazionali ai fini investigativi”) e 7 uffici, di una struttura periferica costituita da 12 centri operativi (Torino, Milano, Genova, Padova, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Reggio Calabria, Palermo, Catania, Caltanissetta) e 9 sezioni operative (Trieste, Salerno, Lecce, Catanzaro, Messina, Trapani, Agrigento, Bologna, Brescia), per un totale di circa 1.300 uomini.
La DIA ha il compito di effettuare indagini di polizia giudiziaria relative a delitti di associazione di tipo mafioso e di assicurare lo svolgimento delle attività di investigazione preventiva sulla criminalità organizzata di tipo mafioso. Il Direttore della D.I.A. può proporre ai Tribunali del territorio misure di prevenzione, sia a carattere personale (sorveglianza speciale…) che a carattere patrimoniale (sequestro dei beni).
Dal 1992 al 2011, la DIA ha sequestrato beni per oltre 12 miliardi di euro, confiscato quasi 2 miliardi di euro e arrestato circa 9.400 persone sospettate di associazione mafiosa.
CARCERE DURO 41 Bis
L’articolo 41-bis (detto carcere duro) è una norma prevista dall’ordinamento penitenziario italiano. Si tratta di un regime di carcerazione speciale, riservato anche ai capi mafiosi e ai terroristi, che potrebbero mantenere collegamenti con le rispettive organizzazioni mafiose o eversive, se carcerati col normale regime di detenzione. Questa disposizione fu introdotta nel 1975 dalla legge Gozzini e inizialmente riguardava soltanto le rivolte o altre gravi situazioni di emergenza interne alle carceri italiane.
Dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992, dove persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della sua scorta, fu introdotto un secondo comma all’articolo 41-bis, che consentiva al Ministro della Giustizia di sospendere, per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, le regole di trattamento previste dall’ordinamento penitenziario, nei confronti di detenuti facenti parti dell’organizzazione criminale mafiosa.
La norma doveva avere una validità di tre anni, ma in seguito fu prorogata per tre volte.
Dopo 10 anni dalla strage di Capaci, il 24 maggio 2002, il Consiglio dei Ministri approvò un disegno di legge, in materia di trattamento penitenziario, stabilendo che il provvedimento del 41 bis poteva essere applicato per non meno di un anno e per non più di due e che le proroghe successive potevano essere di un solo anno ciascuna. Il regime di carcere duro venne esteso anche ai condannati per terrorismo ed eversione. Oggi il provvedimento può durare quattro anni e le proroghe sono di due anni ciascuna.
La norma prevede che il Ministro della giustizia possa sospendere le normali regole di trattamento dei detenuti, in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, per alcuni prigionieri (anche in attesa di giudizio) incarcerati per reati di criminalità organizzata, terrorismo, eversione e altri tipi di reato.
Il carcere duro si caratterizza come una punizione extra decisa dal ministro della Giustizia, con lo scopo di convincere i detenuti a collaborare alla lotta alla criminalità organizzata o almeno di impedire loro di mantenere i contatti all’esterno.
Il 41 bis si applica ai singoli detenuti e intende ostacolare le comunicazioni con le organizzazioni criminali all’esterno del carcere, impedire i contatti tra appartenenti alla stessa organizzazione criminale all’interno del carcere, nonché i contrasti tra gli appartenenti a diverse organizzazioni criminali, così da evitare il verificarsi di delitti e garantire la sicurezza e l’ordine pubblico anche fuori dalle carceri. Per questo fine si applicano limitazioni delle attività comuni (per esempio la preparazione dei pasti), l’esclusione della possibilità di frequentare scuole, biblioteche e attività di culto e l’esclusione da qualsiasi attività lavorativa.
Le principali misure applicate col 41 bis sono:
- rafforzamento delle misure per prevenire i contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza
- restrizioni del numero e delle modalità di svolgimento dei colloqui con i familiari
- la limitazione della permanenza all’aperto (cosiddetta ora d’aria)
- censura della corrispondenza
- acquisto di libri e periodici solo tramite la direzione dell’istituto o la cosiddetta impresa di mantenimento, non mediante pacco postale né con consegna diretta al momento del colloquio con i familiari. La legittimità di questo provvedimento è stata più volte riconosciuta dalla Corte di cassazione.
Il “carcere duro” previsto dal 41 bis, non è applicato unicamente per i delitti di tipo mafioso, ma anche per numerosi altri reati:
- delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale
- delitti di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza
- delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso
- delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’associazione mafiosa o per agevolare l’attività delle associazioni mafiose
- delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù
- delitto di chi induce alla prostituzione una persona di età inferiore agli anni diciotto o ne favorisce o ne sfrutta la prostituzione
- delitto di chi, utilizzando minori degli anni diciotto, realizza esibizioni pornografiche o produce materiale pornografico o induce minori di anni diciotto a partecipare ad esibizioni pornografiche e chi fa commercio del materiale pornografico così realizzato
- delitto di tratta di persone
- delitto di acquisto e alienazione di schiavi
- delitto di violenza sessuale di gruppo
- delitto di sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione
- delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri
- delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope
Il comma 2-quater dell’art. 41- bis prevede che i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione, siano custoditi all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente su isole, comunque all’interno di sezioni speciali, separate dal resto dell’istituto carcerario.
Per questo motivo, sin dall’inizio degli anni ‘90, l’Amministrazione penitenziaria colloca i detenuti del 41-bis, in apposite e selezionate strutture penitenziarie. La loro custodia è affidata a un reparto specializzato della polizia penitenziaria, il Gom (Gruppo operativo mobile). Nel 2009 il Ministro della giustizia Angelino Alfano notificò la decisione del governo di riaprire le carceri delle isole dell’Asinara e di Pianosa. Quest’ultimo non fu poi riaperto per motivi di salvaguardia dell’ambiente.
In Italia sono 12 le carceri dove si applica il 41 bis. Nel 2014 quasi 700 detenuti erano sottoposti al 41 bis.
Il regime del 41 bis continua a far discutere e pone molte questioni. Se da un lato si ritiene che regole speciali di detenzione siano necessarie, dall’altro si pone la questione della salvaguardia dei diritti dei detenuti. Alcuni ritengono che il regime detentivo dell’art. 41-bis sia al limite della costituzionalità.
Nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene (C.P.T.), visitò le carceri italiane per verificare le condizioni di detenzione dei soggetti sottoposti al 41 bis. Questo fu giudicato il più duro tra tutti i provvedimenti presi in considerazione. Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha segnalato la possibile violazione dei diritti umani dei detenuti sottoposti al regime del carcere duro in Italia, ma non si è mai spinta a dichiarare illegale quell’articolo.
Considerato il contenuto numero di pentiti, rispetto al gran numero di detenuti ai quali è applicato il carcere duro, ritengo interessante riportare una domanda che ho letto negli articoli usati per la preparazione di questa tesina: “il fine giustifica i mezzi, ma i mezzi riescono a raggiungere il fine?”.